Intervistiamo Martina Rubini, autrice di una tesi magistrale che intende approfondire la riflessione sui canoni di bellezza.

A fior di pelle: la rubrica di Helixphi
A fior di pelle è la rubrica di Helixphi dedicata alla bellezza e al senso estetico che ospita regolarmente contributi di artisti, scienziati, professionisti e pensatori per indagare e scoprire le molteplici forme della Bellezza. Una rubrica in cui la bellezza si racconta, si descrive e si comunica attraverso un intreccio di parole, relazioni ed emozioni a fior di pelle. Tanti occhi, tante idee e tanti vissuti per esprimere uno dei concetti più complessi e soggettivi mai esistiti.
Oggi incontriamo nel nostro salotto virtuale Martina Rubini, autrice di una tesi magistrale dal titolo “Come ti guardi. Come ti guardano”: una riflessione sull’evoluzione dei canoni di bellezza che la giovane designer ha deciso di indagare e approfondire, con esiti davvero rilevanti.
Il lavoro di ricerca sul tema della bellezza promosso da Helixphi è continuo. Trasversale rispetto agli strumenti digitali o analogici, ci permette di sfogliare le pagine di un libro o di farci ammaliare dalle suggestioni iconiche di una mostra d’arte, alla ricerca di contenuti che possano raccontare la nostra passione per questi argomenti. Argomenti che, molto spesso, ci permettono di apprendere nuove informazioni e di costruire ancora di più quell’impianto di conoscenze che è alla base di un brand come Helixphi. Ecco che qualche mese fa, la nostra ricerca si è imbattuta nel lavoro di Rubini, grazie ad un articolo di Frizzifrizzi, magazine online di cultura visiva.
Abbiamo incontrato digitalmente Martina per parlare di bellezza: leggi l’intervista!
• Qual è stata la riflessione di partenza che ti ha poi portata ad approfondire il tema degli standard di bellezza?
Sono sempre stata una persona attenta all’estetica del bello. Questo mi ha portato, diverse volte, ad interrogarmi su cosa fosse il “bello” e cosa il “brutto”. Mi capitava spesso di esprimere pareri e di non trovare il consenso del mio interlocutore. Di trovare del bello in qualcosa o qualcuno che non era reputato tale.
Sarebbe molto semplice credere e concludere affermando che il “bello”, come anche il “brutto”, sono due giudizi soggettivi. Questa affermazione non sarebbe completamente errata, ma nemmeno completamente corretta e sicuramente è sbrigativa. È da qui che ha avuto inizio la mia ricerca.









• La tua tesi di laurea magistrale si intitola “Come ti guardi. Come ti guardano”.
Come hai deciso di strutturare questo lavoro di riflessione sull’evoluzione dei canoni di bellezza?
Lo scopo ultimo della mia ricerca è quello di informare ogni persona della presenza di fattori esterni che nel corso della storia e nelle diverse società, createsi nel seguirsi dei secoli nel nostro paese, hanno determinato la creazione e la divulgazione di canoni estetici femminili.
Importante era per me condurre, accompagnare il lettore in questo viaggio temporale e dargli i mezzi per poter osservarlo, comprenderlo e metterlo in discussione. Per poter capire, quindi, tali canoni e tali cambiamenti, importante era azzerare e ricostruire la storia partendo dalla parola “bello”.
• Ci puoi raccontare come si è costruito nel tempo l’archetipo femminile?
Secondo C.G. Jung ogni volta che si ricopre un ruolo ben preciso, si sta costruendo un archetipo. Questo termine significa “primo esemplare”, si tratta di un’idea o una forma che rappresenta la mente primordiale del genere umano. Tali archetipi risiedono nell’inconscio collettivo. Di qui è facile intuire che è complesso racchiudere tale questione in poche parole visto la sua mutevolezza e complessità.
Ogni società ha fabbricato una diversa immagine dell’uomo e della donna. Un’ immagine che cambia nel tempo e nello spazio, ma che sempre esprime una precisa visione di cosa competa a ciascuno dei due generi. In breve: la società produce i corpi e ciò implica che ne costruisce la loro immagine e ne determina gli usi. Così il corpo si costruisce, prende forma nel corso della nostra vita e delle nostre relazioni, lo modelliamo attivamente nelle scelte di ogni giorno, ma al tempo stesso lo plasmano le istituzioni con le richieste, siano esse sottaciute o imperiose.
Da sempre i prodotti culturali, dai più nobili dell’arte a quelli più prosaici della promozione delle merci, contribuiscono a proporci degli ideali del maschile e del femminile che interpellano le nostre corporeità sessuate, ci mostrano come esprimerci, quali espressioni assumere, come essere. Così iniziamo a guardare, spesso senza rendercene conto, con gli occhi che la cultura ha plasmato per noi.
Gli standard di bellezza corporea nascono e crescono nutrendosi del contesto storico-sociale in cui vivono, dipendono, quindi, strettamente dalla struttura economica e sociale della società, così la soglia e il significato di ciò che viene considerato brutto o inadeguato variano di conseguenza.
Veniamo invitati a pensare che l’importante sia piacere a sé stessi e che si ha costantemente diritto di scelta, intanto ci vengono date indicazioni su cosa sia bello e cosa brutto e si propongono interventi di modifica del proprio aspetto in una sorta di accettazione di sé condizionata dalla capacità di uniformarsi, o comunque di considerare la presenza di canoni di bellezza condivisi. All’interno della stessa società si crea una certa omogeneità nelle caratteristiche dei visi e dei corpi che vengono considerati belli.



Sono stati gli occhi degli artisti, dei poeti, dei romanzieri, dei fotografi, dei politici, dei registi, degli stilisti a scegliere chi guardare e poi a raccontarci e diffondere cosa/chi loro consideravano essere bello, lasciandocene degli esempi. Col passare dei secoli il peso della società sui corpi si è fatto crescente in quanto le società stesse sono diventate più̀ complesse: cultura materiale, dell’apparire. La donna da sempre inserita in una società di costruzione patriarcale, ha subito maggiormente i danni di questa trasformazione.
L’archetipo femminile, così, si è costruito nella storia della civiltà occidentale. Solo recentemente, però, si riversa su di esso un interesse particolare, una riscoperta di quegli stereotipi che nell’avvicendarsi di epoche hanno rappresentato e raccontato la donna, contribuendo a formarne di altri, e rendendo a quel punto difficile il districarsene.
Il concetto di bellezza e di canoni estetici sono qualcosa di estremamente radicato nella cultura nostrana. In tutti i mezzi di comunicazione e in gran parte del discorso collettivo sul paese, il tema della bellezza femminile e le donne che nel tempo sono state ritenute le rappresentanti è un punto di riferimento costante.
Ancora oggi il concorso annuale di Miss Italia è un evento nazionale che mobilita le energie di tutto un paese attivando da una parte i giornali e dall’altra i lettori di riviste e gli spettatori televisivi. In egual maniera al centro dell’attenzione sono sempre state le donne conduttrici o vallette o veline di trasmissioni o eventi il cui corpo non avrebbe dovuto essere argomento di dibattito. Sicuramente di troppo sono sempre stati i commenti indirizzati alle donne sul palco dell’Ariston che avrebbero dovuto essere giudicate per la sola voce o prestazione come presentatrice.
Il linguaggio elaborato, da sempre, per descrivere la bellezza delle donne, usato ancora oggi dalla stampa, non è né neutrale né sempre adeguato. In politica si fa riferimento molto spesso alla bellezza femminile in modo da sottintendere una possibile incapacità nel proprio ruolo.
Da sempre le sono attribuiti dei ruoli ben precisi. In generale, madre e moglie: i suoi ruoli biologici. Bella, giovane e femminile: i suoi doveri sociali. Sorridente, silenziosa, felice, indaffarata tra la cura del sé e la cura del suo mondo domestico. Indaffarata sì, ma non eccessivamente, e soprattutto non nei cosiddetti “ruoli da uomo”, causa perdita della propria femminilità. Peccato imperdonabile per lei che è donna, donna dall’identità definita in base ad un sistema valoriale biologico-naturale. Sessuale, ancora meglio.



Il suo corpo è da sempre ritratto di bellezza e oggetto di desiderio, motore che guida l’azione maschile, ma che plasma per somiglianza quella femminile. Modello da perseguire, paradigma da avvicinare, primo strumento da utilizzare. Vi è così una riaffermazione della bellezza estetica come valore principale da attribuire al genere femminile, il quale deve apparire piacevole agli occhi dell’uomo.
La società ha sempre investito molto sul corpo del genere femminile, corpo che, come detto, deve essere perfetto, piacevole, che deve sottostare a canoni imposti sia dal genere maschile che dal genere femminile stesso. Lo stereotipo legato alla bellezza femminile è oggi diffusissimo: media, cartellonistica, pubblicità di tutti i tipi, politica, lavoro non importa: la donna deve essere di bella presenza.
Gli uomini guardano le donne e le donne si guardano essere guardate. Così nella donna nasce un duplice io ovvero il sorvegliante (la parte della donna maschile che si osserva) e il sorvegliato (la parte della donna femminile che si sente osservata) [John Berger / Questione di sguardi. Sette inviti a vedere fra storia dell’arte e quotidianità]. Così la donna diventa oggetto di visione. Nella comunicazione, dal cinema alla cartellonistica, questa visione avviene in maniera frammentata, restituendo così dei tagli pregiati del corpo femminile. Infatti questo si frantuma, parcellizza, si divide in parti, ciascuna delle quali ha una specificità, una particolarità che va riguardata e trattata in maniera propria, esclusiva e totale.
Ringraziamo Martina Rubini per questa prima parte della nostra chiacchierata: la prossima settimana vi aspettiamo sempre qui, sul blog di Helixphi, per proseguire con la seconda parte.
Martina Rubini
Fin da piccola ha mostrato una propensione per l’osservazione estetica del bello: “Il mio iniziale approccio è stato fotografico. Osservavo, frugavo il bello, coglievo il dettaglio, mi avvicinavo, mi immergevo e scattavo. Ho sempre investigato sul bello non sublime, non canonico. In particolare nei miei scatti lo cercavo nel disfunzionale, nel diverso, nelle rughe di un corpo che invecchia, che si fa, così, promotore di un racconto, di un vissuto”. Per pura casualità, durante il suo percorso di studi presso l’Università IUAV di Venezia, al primo anno Rubini è stata coinvolta nel progetto, WOW, riguardante appunto la tematica del bello. Si trattava di un prodotto editoriale collaborativo che dava spazio ad ogni studente di raccontare, in 10 pagine e attraverso il solo utilizzo delle immagini, il personale concetto di canone di bellezza. “In quelle dieci pagine cercavo di spiegare, attraverso una mappatura di diversi volti che meglio rappresentano il canone tipico di diversi paesi, come l’occhio umano è attratto da ciò che reputa familiare e rassicurante e di come, quindi, la bellezza estetica di una persona è un concetto relativo che varia di paese in paese, essendo frutto della propria cultura e della società in cui si vive”.